La donna che frantuma la maschera di Facebook


Nei giorni scorsi mi è stato inviato il discorso tenuto da Carole Cadwalladr, la giornalista che ha fatto scoppiare il caso Cambridge Analityca, al TED di Vancouver. Trovate il video originale e la traduzione effettuata da AGI – Agenzia Giornalistica Italia – QUI.

Il contenuto è ad alto tasso di inquietudine, per quello che racconta del passato e, soprattutto, per il domani che lascia immaginare.

In uno dei primissimi post pubblicati su Correre Pensando, avevamo ragionato del ruolo fondamentale dell’ambiente nello sviluppo della personalità, domandandoci quali effetti la sua smaterializzazione avrebbe finito per produrre. Domenico aveva poi approfondito il tema nel volume I Superconnessi, edito da Feltrinelli nel 2018.

Quattro anni dopo quel post Carole Cadwalladr ci investe frontalmente.

Alcuni amici, dopo la lettura dell’intervento della giornalista, si dichiarano stupiti del fatto che molti degli utenti, imbattendosi in notizie false su Facebook, non trovino strana la circostanza che di quelle notizie non si trovi traccia da nessun’altra parte.

Contestazione legittima, sennonché il problema è molto più ampio e profondo.

Innanzi tutto, non credo esista una sola persona che usi Facebook come fonte di informazione. La quasi totalità dei suoi utenti vi accede per condividere foto delle vacanze, delle serate passate fuori, dei compleanni, video divertenti, riflessioni personali, per chiacchierare con amici e con sconosciuti. Mille motivi, quasi tutti riconducibili all’idea di farsi i fatti degli altri e permettere a quelli di farsi i nostri. A essere benevoli, per sentirsi (illusoriamente) più connessi e nutrire il naturale bisogno di appartenenza.

La funzione informativa di Facebook è, dunque, una sorta di involontario incidente di percorso, un effetto collaterale, ma la natura casuale delle notizie che passano su Fb vale solo per il ricevente, non certo per chi le produce che, come ci fa capire benissimo il TED di Carole Cadwalladr, sa benissimo quello che sta facendo.

Il modo in cui le persone si informano non è cambiato molto da quando Zuckerberg ha consegnato al mondo il frutto del suo ingegno, per il semplice motivo che moltissime persone semplicemente non si informano. Non intenzionalmente, quantomeno.

Tra i tanti effetti della nostra natura sociale, c’è l’immersione in un ambiente colmo di informazioni e notizie. Dal quotidiano trovato al bar, al telegiornale che scorre in sottofondo mentre si cucina o si cena, fino alle chiacchiere con amici o sconosciuti compagni di viaggio sui mezzi pubblici. Una sorta di rumore di fondo che rappresenta per moltissime persone l’unica fonte di informazioni sui fatti del mondo.

A questo punto diventa necessario domandarsi cosa sia cambiato dall’arrivo di Facebook e di Twitter. Non certo la modalità di raccolta delle informazioni, che rimane quella appena descritta, quello che cambia, invece, è la qualità delle notizie, e l’attendibilità media delle fonti di cui si nutre l’ambiente informativo in cui viviamo.

Se prima c’erano quotidiani e telegiornali, non immuni dalla soggettività ma certamente più vaccinati e comunque globalmente affidabili, l’arrivo dei social network ha modificato radicalmente le caratteristiche dell’ambiente, irrorandolo di notizie di cui non è possibile verificare l’attendibilità né individuare la fonte. Notizie, si fa per dire, quasi sempre selezionate per generare engagement, quindi costruite con lo specifico obiettivo di intercettare e rinforzare gusti, pensieri e paure degli utenti. Per essere un poco brutali, non c’è nessuna notizia nel modo di fare informazione dei social, perché la notizia origina dalla realtà, semmai c’è una procedura manipolatoria mediante la quale si separano i fatti dalle emozioni e si usano solo quelle, con l’obiettivo di portare gli utenti all’interno di una narrazione precostituita. I media servivano per informare, ora si usano per portare i muli all’abbeveratoio, facendo finta di non farlo.

La questione è tutta qui, nell’inquinamento dei pozzi da cui originano le informazioni, le quali poi daranno luogo a ragionamenti, comportamenti e scelte elettorali completamente avulsi dalla realtà. Il risultato finale è la psicosi collettiva, con effetti tremendi su quella realtà che si irride così sfacciatamente.

La soluzione può arrivare solo da un epocale investimento pedagogico sui più piccoli, a tutti i livelli, da quello familiare a quello scolastico, perché essi sviluppino la capacità di muoversi in un contesto informativo che non informa affatto ma che può distruggere le loro vite.

Immagine di sebastiaan stam via Unsplash


7 risposte a “La donna che frantuma la maschera di Facebook”

  1. Grazie Luciano, articolo lucido e preciso.
    La Cadwalldr è stata bannata o bandita da Facebook, a quanto pare dire che il re è nudo e che non riesce nemmeno a governare il suo regno è troppo da sopportare.
    Abbiamo elezioni imminenti, ovunque; dalla mia prospettiva di tecnico sto guardando a chi riuscirà a implementare un sistema adeguato ed efficace di filtraggio contro le fake news e un sistema più trasparente per capire chi investe per modificare le bacheche degli utenti e per quale motivo.
    Mi viene in mente il concetto di entropia, non solo nell’accezione legata al caos, ma alla qualità dell’energia: serve ripristinare e preservare la qualità dell’informazione online.
    Dagli anni novanta a oggi persino i meno equipaggiati hanno imparato che le mail che iniziano con “enlarge your penis, click here!” non portano a nulla di buono; dovrebbero impararlo anche verso chi pubblica post con il mitra e poi i peluches.

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    • Hai ragione Mattia, la questione ha una doppia componente. Da una parte gli utenti devono imparare a muoversi in un ambiente che presenta grandi elementi di novità, dall’altra chi gestisce questi servizi dovrebbe implementare soluzioni di tutela e controllo.
      La domanda, maliziosa, è se la cosa sia di loro interesse.

      Ti chiedo, visto che sei attento al tema, se hai trovato buone soluzioni fra quelle fin qui proposte.

      Grazie, a presto!

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      • Puntare sui giovani, che non solo sono i più esposti, ma anche quelli che avranno maggiore dimestichezza con l’uso della rete, è strategia vincente su tutti i fronti.
        Una lenta crescita di consapevolezza delle persone nella rete ritengo che avverrà sempre di più, anche grazie all’impegno che ci state mettendo con questo blog e con i libri del dott. Barrilà.
        Consideriamo infine anche le leggi: per sua natura l’ordinamento recepisce i cambiamenti con lentezza, ma quando legge, opzione pubblica, consapevolezza delle persone si spostano assieme, anche l’impero più solido si deve adeguare.

        È una strada in salita, ma fattibile.
        Grazie a te Luciano, alla prossima!

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  2. Invece, caro Luciano, molti si informano SOLO su Facebook e puoi immaginare quale sia la percezione della realtà che hanno molti utenti , come hai ben evidenziato tu … mandrie portate all’abbeveratoio.
    Così si crea la paura dello straniero, del migrante che ti ruba 35 euro al giorno e altre amenità.
    Foto di repertorio di giovani di colore in vacanza (magari in piscina nel proprio paese) che vengono spacciati per ospiti di alberghi italiani mentre i terremotati sono al freddo …. E via che la rabbia cresce…. ecco perché i social hanno rovinato la nostra società, perché non sono rimasti strumenti di svago ma strumenti di rincoglionimento di massa.
    E poiché il primo esempio per i ragazzi sono i propri genitori non ho speranza chr riusciamo ad insegnare ai giovani ad esercitare il proprio senso critico…. Scusa se mi sono dilungata.

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    • Nei giorni scorsi ho tenuto una formazione presso una cooperativa che si occupa di disabilità.
      Chiacchierando davanti a un caffè il direttore mi racconta che da qualche tempo utilizzano Facebook come strumento di contatto con le persone, che prima di aprire la pagina hanno ragionato molto sulle modalità di gestione (chi è autorizzato a scrivere, che tipo di contenuti pubblicare, come rispondere ai commenti…), che hanno superato in poco tempo le duemila connessioni e che la grande maggioranza di queste non sono riferibili a persone già in contatto con loro tramite altri canali.

      Racconto questa piccola esperienza non per rimangiarmi quanto scritto nel post o per negare quanto dici nel tuo commento, che in larga parte condivido, ma solo per aprire un piccolo spiraglio di speranza in un quadro che potrebbe sembrare esclusivamente negativo. Il senso di Correre Pensando è anche quello di cercare questi spiragli, approfondirli, cercare di allargarli.
      Credo che un uso molto migliore di queste tecnologie sia possibile, allo stesso modo credo che per raggiungerlo sia necessario affrontare apertamente le criticità, che ci sono, sono gravi e sono tante, come il tuo commento racconta bene.

      Grazie

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  3. Caro Luciano, grazie di farmi sempre partecipe delle tue/vostre riflessioni che leggo sempre possibilmente quando ho un po’ di tempo per meditarle. Anche qui sono arrivata in fondo masticando piano e in fondo… un sussulto. Io non posso credere che si continui a pensare che ogni cambiamento, ogni resurrezione, vada ascritta ai bambini! Su quelle spalle piccole pesano tutte le accidie, le cattive scelte, gli scaricabarile degli adulti. Capisco che invece siano gli adolescenti a ribellarsi giustamente e a dare un giro alla vita ma gli adolescenti sono appena usciti dall’infanzia e chi ha curato quell’infanzia? Gli adulti. quelli menefreghisti e violenti come chi li accarezza dicendo che loro, se bianchi e ben fatti sono i preferiti, come quelli che si spendono con tutte le loro energie per accompagnarli a procedere con passi consapevoli. Allora non possiamo sempre dire che dobbiamo ricominciare dai bambini. Perché succede già, nel bene e nel male e i bambini crescono nelle esperienze e nelle credenze che vengono loro propinate. Ripropongono la società che c’è a meno che da adolescenti abbiamno la forza rara di ribellarsi. Quello che c’è da fare, se proprio vogliamo, è lavorare insieme ad adulti e bambini perché sono gli adulti che devono essere aperti ad educarsi e al cambiamento. Ci si deve spendere per e con gli adulti sempre sempre sempre, perché loro sappiano come confrontarsi con il mondo da una parte e dall’altra con i loro bambini fornendo gli strumenti corretti per quel momento. Scusa lo sfogo Luciano ma mi vedo già i bambini raccolti in kibbutz per un lavaggio del cervello che quasi mai va a buon fine anche nelle migliori intenzioni. I bravi Maestri e i bravi genitori, i bravi infermieri e mnedici pediatrici, i bravi psicologi dell’infanzia, i bravi educatori di strada, i bravi intermediari culturali ecc. sono davvero pochi. Bisogna dare spazio e fiducia e formazione perché siano molti e molti e molti di più. Con affetto Emanuela

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    • Cara Emanuela, leggo e rileggo il tuo commento e il mio post, e ti confesso di fare fatica a capire il percorso attraverso il quale sei arrivata alle tue conclusioni.
      Il finale del mio post diceva esattamente il contrario di quello che mi attribuisci, era un monito agli adulti, mica pensavo di mettere l’elmetto ai bambini e mandarli alla guerra.
      Investire sui bambini significa esattamente invogliare gli adulti a fare gli educatori, a prendersi le proprie responsabilità, a non lasciare soli i piccoli che, come giustamente sottolinei, non si possono prendere il mondo sulle spalle. Tutto qui. Conosco e condivido la tua passione per il mondo dei bambini, apprezzo molto l’originalità e la competenza con le quale ti accosti ai temi che li riguardano, potrei dire siamo sulla stessa onda, per questo credo ci sia stato un piccolo malinteso. Detto questo, capisco la tua preoccupazione, soprattutto capto il pericolo di rovesciare addosso ai bambini aspirazioni salvifiche, che vorrebbero riscattare il fallimento dei grandi. Su questo sfondi una porta aperta.
      Anche io ti saluto con affetto.

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