A teatro. Concerto per Amleto, scritto a quattro mani dall’attore Fabrizio Gifuni e dal direttore d’orchestra Rino Marrone, che intreccia in modo affascinante le parole del bardo alle musiche di Dmitrij Šostakovič per due rappresentazioni, una teatrale e una cinematografica, del dramma shakespeariano.
La vicenda narrata non è delle più allegre, ne trovate un buon sunto su Wikipedia.
Mi trovo in quella platea alla fine di una giornata di lavoro piuttosto impegnativa, senza contare che a teatro spesso fa caldo, un mix poco promettente. Mi sono annoiato, eppure questo non mi ha impedito di godermi, e molto, lo spettacolo.
Una noia utile, positiva, quasi uno stato che mi ha costretto a rallentare, a prendere coscienza e elaborare profondamente la mia presenza in quel luogo, tra tante persone, davanti a quegli artisti. Per questo non vedo contraddizione nel mio giudizio di quanto visto, perché la noia è stata parte fondamentale della sua bellezza. Pause troppo lunghe, tempi troppo dilatati, parole desuete perché il frenetico stato mentale in cui siamo immersi quotidianamente non si ribelli a suon di sbadigli, eppure proprio in quegli sbadigli si nasconde la consapevolezza che il treno su cui siamo saliti stia correndo troppo velocemente, generando ferite invisibili ma non per questo meno dolorose.
Fine dello spettacolo. Sul treno, vicino a me siede un ragazzo che direi mio coetaneo, un figlio degli anni ‘80. Cellulare, cuffie sulle orecchie, guarda un video. Mi colpisce la sua gamba, che “martella” incessantemente, sembra consumato dall’ansia di essere in ritardo per l’appuntamento della sua vita. Ma sono le 23 passate, il treno è in perfetto orario, e probabilmente sta solo tornando a casa.
Una cosa che mi colpisce, quando mi trovo in mezzo a gruppi di ragazzi per strada o su qualche mezzo pubblico, è la costante presenza di musica. Qualcuno ha le cuffie e l’ascolta per conto suo, qualcuno la socializza utilizzando ad alto volume, e con poco riguardo nei confronti delle altre persone, una piccola cassa bluetooth, ormai sostituta perfetta dei falò intorno a cui ci si riuniva un tempo.
La sensazione è che non riescano a sostenere il silenzio, che abbiano la necessità di essere costantemente immersi nel rumore, come se fosse il collante che tiene unite relazioni altrimenti fragili. Il silenzio è una sfida troppo impegnativa.
I più giovani non sono gli unici a soffrire gli effetti di questo ritmo, solo che loro li manifestano senza riserve. Nessuna categoria generazionale può dirsi al riparo.
La gamba “martellante” del ragazzo sul treno è la stessa che a volte faccio martellare io, sono le unghie mangiate di qualcun altro, il cibo troppo controllato o incontrollato di altri, la mania di accumulare acquisti su acquisti. Valvole diverse che servono, almeno in parte, a liberare l’eccesso di vapore che ci preme dentro.
Vale un po’ per tutti, ma per chi vive in Lombardia, soprattutto per chi vive a Milano, il tempo sembra accelerato. Ci sentiamo rincorsi, costretti a correre, sempre più veloci. Ma all’aumentare della velocità, lo ha spiegato Einstein in maniera molto chiara, gli oggetti sono sempre più schiacciati, perché lo spazio si contrae continuamente.
Gli oggetti siamo noi, sono i nostri corpi obbligati ad attraversare uno spazio e un tempo che diventano sempre più densi al crescere della velocità, una traversata che richiede quantità di energia sempre più grandi mano a mano che l’andatura aumenta.
L’esito è doppio. Da una parte siamo sempre stanchi, scarichi, meno disponibili ad accogliere l’altro con le sue richieste di spazio e di tempo (perché spazio e tempo spesi insieme sono, guarda caso, anche due pilastri fondamentali di ogni relazione che voglia andare oltre la semplice conoscenza). Dall’altra, ogni volta che siamo costretti a fermarci veniamo investiti da una strana ansia mista a senso di colpa, come se quei momenti fossero sottratti a ritmi ed attività più produttive.
Forse le vie d’uscita sono poche, inutile indorare una pillola amara. L’ambiente in cui viviamo è ormai compromesso in maniera profonda e nessuno sembra avere voglia di decelerare. Tuttavia, qualche piccolo spazio di manovra esiste. Qualcosa lo possiamo fare.
Sceso dal treno verso la mezzanotte, sono tornato a casa discretamente preoccupato per le mie gatte, cui pure avevo lasciato una generosa dose di crocchette, quando ero uscito alle 7 di quella mattina, ma che non avevano cenato. Apro la porta e tiro un sospiro di sollievo quando vedo che aver saltato il pasto non le ha portate a mangiarsi a vicenda. Nella ciotola qualche crocchetta, eppure mi sento in colpa e ne aggiungo altre, con qualche ora di ritardo la cena è salva!
Le gatte mi guardano senza troppa convinzione, ignorano il cibo e tornano all’ozio da cui il mio rientro le aveva distratte.
Se avessero potuto parlare forse mi avrebbero detto che “pranzo” e “cena” sono concetti presenti solo nella mia testa, non sono assoluti e universali, esistono perché possiedono un significato che io gli attribuisco.
Il loro sguardo perplesso mi ricorda che in qualche modo il tempo stesso è una nostra creazione, perlomeno lo è il ritmo che gli diamo, e che a volte sarebbe sufficiente domandarsi se ciò che stiamo facendo richieda davvero tanta fretta per realizzare che il più delle volte no, non la richiede. Forse la fretta copre le domande che non vogliamo scoperchiare.
Sarà banale, ma è sull’equilibrio fra richieste interne e richieste esterne che oggi si gioca il nostro benessere psicologico.
Una partita in cui ogni tanto possiamo permetterci di segnare qualche punto sbadigliando un poco.
Luciano Barrilà
Immagine di meredith hunter via Unsplash
4 risposte a “Quando la noia non ci annoia”
Caro Luciano, il tuo scritto mi ha fatto riflettere.
Cosi, ieri sera, tornando dal lavoro, mi sono messa a preparare la cena senza accendere la televisione.
Da quando i miei figli non vivono piu’ con mio marito e con me, devo ammettere che il silenzio assordante in casa, mi costringe a cercare nuove soluzioni.
Non ieri sera pero’. Ieri sera ho lasciato la televisione spenta, e ho permesso solo al crepitio della fiamma nella stufa di interrompere il silenzio assoluto intorno a me.
Questo mi ha aiutata a pensare con tranquillita’ e lucidita’ agli affetti della mia vita, per esempio.
Il tepore della casa e la dolcezza del giorno che ormai volgeva a termine, mi hanno regalato un paio di orette in compagnia dei miei pensieri e delle mie emozioni.
Poi sono arrivati i miei nipotini. In un attimo il silenzio ha lasciato spazio al chiasso, ai giochi, alle richieste incessanti di attenzioni, ma quel momento solo mio di quiete, mi ha donato proprio quel benessere psicologico che tu riporti nella parte finale della tua riflessione.
Mi ha rigenerata nel profondo.
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Grazie Simona,
il tuo commento mi fa quasi arrossire, fortuna che c’è di mezzo uno schermo e non se ne accorge nessuno! 😉
Credo proprio tu abbia colto alla perfezione il senso di ciò che volevo dire, l’idea di ritagliarsi piccoli spazi di noia, e sì, anche di solitudine, senza che questo significhi però cadere nell’eccesso opposto sottraendosi al mondo e agli altri.
A me capitava spesso di riempire il silenzio della mattina (mi sveglio prima della mia compagna) accendendo la TV per ascoltare le notizie…da qualche tempo ho imparato a lasciare la TV spenta, preparare un caffè e godermi un po’ le mie gatte, che sono decisamente più interessanti di quello che passa il notiziario di questi tempi. Per leggere il quotidiano e rovinarmi l’umore c’è tutto il resto della giornata… 😀
Grazie ancora per le tue parole, a presto!
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Insuperabile istantanea del nostro quotidiano.
Grazie Luciano.
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Ciao Sabrina, grazie a te per il commento! 🙂
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