Ne abbiamo già parlato in passato, la lingua che utilizziamo è in stretta connessione con il modo in cui pensiamo. Linguaggio e pensiero si nutrono continuamente a vicenda, in un intreccio che a volte riserva strane sorprese.
Recentemente, dopo una ventina d’anni, mi sono cimentato ancora con quella che è probabilmente considerata la più classica storia di fantasmi mai scritta: Il giro di vite. Pubblicata sul finire dell’Ottocento, prima a puntate su una rivista e poi in volume, la novella di Henry James continua ad affascinare, offrendo notevoli spunti interpretativi. Un meccanismo perfetto in cui suspance e ambiguità sono dosati con maestria tale che, a distanza di oltre un secolo dalla pubblicazione, i critici di tutto il mondo dibattono ancora su quale sia il reale significato degli eventi accaduti nella tenuta di Bly, nell’Essex, che vedono coinvolti due bambini, Flora e Miles, e la loro istitutrice.
Se non avete mai avuto l’occasione di imbattervi in queste pagine, consiglio vivamente la lettura. La sensibilità è cambiata molto da allora e dubito che qualcuno possa ancora provare spavento per gli eventi narrati, che con l’occhio assuefatto alle scene horror “estreme” di oggi sembrano quasi ingenui, ma il meccanismo della tensione, più primordiale e meno influenzabile dalle modalità con cui le culture codificano l’orrore, funziona ancora egregiamente.
Un bel racconto gotico, che parrebbe avulso dagli scopi di questo blog se non fosse per una piccola frase pronunciata dall’istitutrice. «Io ero uno schermo…», dice, «dovevo stare davanti a loro. Più avrei visto io, meno avrebbero visto loro.»
Ho girato la pagina continuando a leggere come se niente fosse. Poi, mentre le righe scorrevano, sono stato assalito dalla strana sensazione di avere tralasciato qualcosa, come se avessi intravisto un dettaglio fondamentale. Torno indietro, rileggo, e trovo quel dettaglio, una parola: schermo.
Per un attimo rimango stranito, penso allo schermo del mio smartphone, a quello del mio computer, a quello della mia TV.
Mi domandavo com’era potuto accadere, com’era stato possibile che uno scrittore dell’Ottocento avesse potuto utilizzare quella parola. Schermo. Non credo avesse potuto vedere uno dei dispositivi che ci sono familiari, magari era ispirato dalle primissime proiezioni cinematografiche, risalenti proprio a quegli anni. No, impossibile!
Penso a una licenza del traduttore, ma una verifica nel testo originale fuga ogni dubbio. «I was a screen – I was to stand before them. The more I saw the less they would.». La stessa parola, schermo.
Realizzo in fretta, non così in fretta da evitarmi gli attimi di stupore descritti, che il sostantivo schermo possiede un significato che nell’epoca dei dispositivi digitali è divenuto secondario e si riferisce a un oggetto che cela, nasconde, protegge l’occhio di chi guarda.
In questo senso l’istitutrice scherma i due bambini e in questo senso avrei dovuto interpretare subito il termine, non fosse che, appunto, siamo nel 2018, e la parola, insieme alla sua traduzione inglese screen, ha ormai subito un rovesciamento di significato quasi completo. Da oggetto che ostacola la vista a oggetto che permette di vedere, da superficie che protegge a finestra aperta sul mondo.
Eppure mi sembra che questo piccolo caso linguistico dica molto anche degli schermi luminosi con cui interagiamo continuamente. Se è vero che gli schermi sono finestre attraverso cui incontriamo persone e visitiamo luoghi lontanissimi, è altrettanto vero che nessuna finestra può essere così grande da contenere e mostrare tutto il paesaggio.
Italo Calvino diceva che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Ecco, allora, cosa mi dice, oggi, quel classico che è Il giro di vite.
Mi dice che lo schermo del mio smartphone rappresenta una formidabile opportunità di apertura e conoscenza, una lastra che nell’ultimo secolo da opaca è diventata completamente trasparente, mostrandomi cose e facendomi incontrare persone che diversamente non avrei visto e conosciuto.
Eppure, mi mette anche in guardia e mi spinge a ricordare sempre che quanto vedo attraverso la mia finestra è solo un’inquadratura, dunque un punto di vista. Dovremmo abituarci a tenere a mente che, per quanto stupefacente sia ciò che vediamo attraverso la nostra finestra, c’è sempre una parte del paesaggio che rimane esclusa. E iniziare a considerare che quanto ci sfugge è forse più importante di ciò che vediamo.
Luciano Barrilà
Immagine di Adrien Olichon via Unsplash
3 risposte a “Attraverso lo schermo”
Non avevo mai riflettuto sul termine ‘schermo’, complice la mia professione l’ho sempre data per scontata e conosciuta soltanto come finestra sul mondo.
È una preziosa riflessione che proporrò anche ai colleghi e amici; grazie Luciano!
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calvino e schermo rimandano direttamente a Palomar: una lezione importante
grazie 2 volte: per il richiamo sulla trasformazione lessicale e per il ricordo suscitatomi di una cara lontana lettura
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Lo schermo porta aperta e lo schermo porta chiusa. Ancora una volta la stessa parola evoca realtà addirittura opposte. Nello spazio che divide i significati, c’è posto per tutte per quelle manipolazioni collettive di cui forse siamo appena all’inizio.
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