Pochi giorni fa, a sorpresa, sono stato invitato alla Scala per La Bohème. L’opera, composta da Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, si ispira alle vicende di un gruppo bohémien narrate originariamente nel romanzo dello scrittore francese Henri Murger Scene della vita di Bohème.
Andare all’opera è una di quelle esperienze che tutti dovrebbero provare, non tanto per lo spettacolo in sé, che può piacere o meno, quanto per la totalità di ciò che si sperimenta che, con i suoi ritmi molto ottocenteschi, ci permette di vivere per qualche ora all’interno di una scansione temporale che abbiamo ormai completamente perduto.
A proposito dei tempi, il sito ufficiale recita così:
PRIMO ATTO: 60 minuti / Intervallo: 35 minuti
SECONDO ATTO: 25 minuti / Intervallo: 30 minuti
TERZO ATTO: 30 minuti
Meno di due ore di musica intervallate da un’ora abbondante di pausa. Sono tempi tecnici, necessari all’orchestra per tirare il fiato e alle maestranze del teatro per modificare le scenografie, rivestire gli attori, preparare luci ed effetti speciali necessari a ciò che sta per avvenire sul palco. Immagino che in passato, quando la strumentazione tecnologica non esisteva e tutto era più complicato, i tempi richiesti fossero ancora più lunghi.
Mi sono goduto la splendida opera ma, ancora di più, mi sono goduto queste lunghe pause, autentiche custodi di insegnamenti preziosi. Durante una di esse discutevamo con chi mi accompagnava di quanto momenti morti così lunghi siano ormai stati spinti con violenza fuori da quella che viene considerata la sfera della normalità, come siano diventati generatori di un’ansia, quella di non star facendo niente, che tendiamo a caricare di sensi di colpa e malumori, come se i vuoti fossero peccati mortali contro la produttività che diminuiscono il nostro valore.
Mentre passavano questi minuti mi sono guardato intorno, ho osservato gli altri spettatori che si muovevano veloci verso il bar o i servizi, ho osservato gli orchestrali che si scambiavano qualche parola e quelli che chiudevano gli occhi per un breve riposo, ho immaginato dietro il tendone le braccia che spostavano le enormi e splendide scenografie, i cantanti che ripassavano mentalmente le parti, ho guardato il legno e i tessuti che mi circondavano nel palco, l’incredibile lampadario che illumina la sala, l’orologio sopra il palco che resta uguale a quello di un secolo fa.
Alla fine dell’opera, quando Mimì, una delle protagoniste, muore, mi sono commosso. Ho pianto qualche lacrima nel buio, cercando di non farmi vedere o sentire. Non credo sia stata conseguenza di ciò che avveniva sul palco, la vicenda e il destino della giovane fioraia sono noti e il finale largamente atteso. No, credo che l’emozione sia maturata lentamente, nelle pieghe morbide di quei tempi così rilassati, gli unici in grado di farci elaborare ciò che sta accadendo dentro e intorno a noi.
Siamo abituati a vivere come rocce in un torrente, investite continuamente da un flusso informativo che ci scivola addosso senza lasciare quasi traccia di sé. Elaboriamo il poco che riusciamo, come riusciamo, ad un livello che è forse il più superficiale della storia dell’umanità. Il nostro cervello e il nostro orologio interiore non funzionano così, hanno bisogno di tempo per trasformare gli eventi del mondo esterno in tracce lasciate in quello interno e non c’è, ad oggi, un modo per cambiare questa realtà. Forse è anche per questo che le comunicazioni che viaggiano online sono spesso cariche di aggressività e violenza. La capacità di mettersi nei panni degli altri e sentire le loro emozioni richiede tempo, un tempo che oggi riusciamo a concederci in quantità omeopatiche e costantemente minacciate dalla tempesta informativa in cui siamo immersi fino a sopra i capelli.
Sarà banale, allora, ma ben vengano l’opera e tutti quei momenti che ci costringono a rallentare, a tirare un po’ il freno e dare un’occhiata alle persone e agli eventi che ci circondano in maniera più prossimale.
Sono riserve di normalità di cui abbiamo drammaticamente bisogno.
Immagine di apertura dal sito del Metropolitan Opera
Una replica a “Fuga dalle emozioni”
Verissimo! il gusto dell’opera è anche questo tempo dilatato, straordinario che ci rilassa e ci riporta a tempi lontani, per noi sconosciuti………
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