Tre domande a…Angelo Monti


Tre domande a…serve a uscire dal blog, a impedirgli di diventare semplicemente il punto di vista dei titolari.
Ci siamo detti che ci servivano pensieri pensati da altri, persone che come noi sono state investite dal digitale mentre abitavano un mondo diverso. Vogliamo capire come quest’ospite invadente è entrato nella loro vita e nel loro lavoro, nella loro arte e nella loro scrittura, quali corde tocca e cosa promette per il futuro.

L’ospite di questa settimana è Angelo Monti, architetto e presidente di Urbanlab – centro per lo studio della cultura urbana.

Partiamo dal tuo progetto, Urbanlab – centro per lo studio della cultura urbana.
Scorrendo le slide proiettate alla presentazione ufficiale avvenuta a Monza siamo stati colpiti dalle finalità della vostra associazione, in particolare da questa frase: “dare impulso al lavoro intellettuale, alle reti di impresa, all’artigianato contemporaneo, sollecitando la natura pluridisciplinare e sinergica delle azioni“. Viene alla mente il tema delle startup e, più in generale, quello della rete di professioni e professionisti, ma soprattutto la forza prorompente con cui le nuove forme dello stare e del lavorare insieme stiano costruendo il futuro. Crediamo appaia curioso anche a te, se pensi che le tecnologie, solitamente supporto indispensabile a questo modo di fare impresa, sono spesso accusate di creare isolamento.

Sono molte le progettualità e le energie sedimentate nella città, capaci di generare qualità. Credo che la strategia futura non sia tanto di inventare quanto di coordinare e dare consapevolezza a questa cultura. Se muoviamo da questa idea, si pone la questione di ri-affrontare il tema della città agendo sulla sua dimensione relazionale sia per qualità dello spazio fisico sia per le infrastrutture immateriali dei flussi e delle informazioni.

È un atto di rifondazione in grado di riconoscere la città come luogo di scambio dei beni, delle informazioni, senza rinunciare alla sua natura di memoria delle emozioni collettive, luogo dell’urbanità, della convivenza, della cultura e della civiltà nella diversità. Start up, rete e cultura delle professioni sono tra i possibili protagonisti di questo progetto capaci di proporsi come acceleratori culturali della condivisione. In questi ultimi anni è cresciuto esponenzialmente, uscendo dalla fase pioneristica, il modello economico della sharing economy che, pur con le inevitabili criticità di ogni evento nuovo, già incide e sempre più inciderà sulla struttura urbana, aprendo scenari che siamo chiamati a definire.

Penso, ed è solo uno degli esempi, quanto il crescente successo del co-working possa determinare conseguenze trasformative non solo sui modelli del lavoro, ma anche sugli stessi spazi fisici e, dunque, sulla forma delle città. La scommessa per i governi delle città è rendere strutturali questi impulsi, favorendo l’insediamento di luoghi aggregatori di competenze e spazi delle idee.

Questo vale anche per i modi di produzione, dove proprio la tecnologia apre scenari meno scontati sul destino di separazione tra luoghi dell’ideazione e luoghi della produzione.

Penso al fenomeno dell’artigianato “digitale” – officine o “botteghe” di progettazione e produzione digitale – oggi in rapida crescita anche in Italia (più di 100 i Fab-lab mappati).

Non credo alla ideologica convinzione che questi modelli possano competere tout-court con le regole dell’economia globale, ma certamente non sono più relegabili, in modo miope, nel capitolo delle “curiosità”. Del resto che la società economica umana sia ad un bivio è un dato diffusamente percepito anche se poco applicato.

È un cambiamento che sollecita un nuovo primato del lavoro piuttosto che il globalismo finanziario. La tecnologia può essere parte fondamentale del processo se riconosciuta nella sua natura di strumento e non trasfigurata in fine.

Del resto “città intelligente” non significa solo tecnologia o infrastrutture fisiche e digitali, ma sempre più ridefinizione dei suoi modelli di governance, della sua capacità inclusiva nelle relazioni sociali e di
valorizzazione del suo capitale di conoscenza. Insomma, in una parola, della centralità della persona. È un processo integrato per la qualità della vita e per il rilancio anche economico della città.

Il collegamento naturale a quanto detto fin qui è al tema dei beni comuni, quell’enorme patrimonio di spazi ed edifici pubblici attualmente in stato di abbandono (pensiamo a molte stazioni ferroviarie o alle case cantoniere), che crediamo si presti in maniera naturale a fare da substrato logistico a questi cambiamenti.
Vorremmo conoscere il tuo pensiero e sapere quali strade vedi per il recupero in chiave pro-sociale di questi luoghi.

Circa il 70% degli italiani vive già in ambiti urbani. Parlo di ambiti perché dobbiamo chiederci se le “galassie” di urbanizzazioni – come ci appaiono nelle suggestive immagini satellitari notturne – siano ancora città o altro.

La nostra quotidianità ne è parte, coinvolta anch’essa in questa mutazione della città contemporanea che ha capovolto lo storico rapporto città-natura, travolgendo lo spazio naturale, diventato, per molti territori come il nostro, uno spazio recintato nel mondo costruito.

Una città che è ovunque, cancella se stessa.

Oggi, e in modo trasversale, da più parti si afferma l’urgenza di porre un freno a questa dispersione, regimentando un uso razionale del suolo, il cui consumo, dagli anni Novanta ad oggi, ha sottratto al territorio agricolo italiano qualcosa come la superficie di una Lombardia e mezza.

Credo che, al di là degli slogan, il nostro “fare città”, inteso come motore positivo della crescita, presuppone “banalmente” che le città tornino a crescere su se stesse per densità, stratificazione, sostituzione.

La rigenerazione sostenibile della città significa proprio questo: rioccupazione degli spazi abbandonati, ma anche ristrutturazione o sostituzione progressiva dello stock immobiliare compromesso negli standard qualitativi ed energetici.

Rigenerare le città significa prima di tutto pensare ad un serio fondante disegno dello spazio pubblico, dei suoi percorsi, piazze e funzioni, che diano senso al suo cambiamento.

Rigenerare è, anche, riflettere sull’accessibilità ai vantaggi urbani, sul concetto e il significato che “abitare la città” sta assumendo per nuove categorie di cittadini – giovani, studenti, nuovi city users, migranti –
affinché le città tornino ad essere attrattori dello sviluppo economico e culturale.

Significa un impegno collettivo a ridurre gli sprechi, non solo di materiali, ma di paesaggi e luoghi.

Non solo, quindi, interventi immobiliari di grande scala e spesso di difficile e faticosa realizzazione, ma la sperimentazione di diffuse operazioni a dimensione circoscritta in partenariato con privati e terzo settore, pensati insieme a programmi di servizi ai cittadini e a nuovi luoghi di lavoro, proponendo quelli che definisco “hub generazionali”, “piattaforme” che integrino la residenza ad attività innovative di produzione e servizio, con dotazione di spazi per la cultura, incentivando, infine, la distribuzione commerciale a partire dalla revisione, già in atto, della grande distribuzione. La città e i suoi “deserti” si recuperano nella mixitè.

Parliamo di mobilità. I dati sulla mortalità per incidenti stradali o quelli sull’inquinamento sono sufficienti per farci capire che l’attuale modello di mobilità occidentale non è più sostenibile.
Di nuovo sembra venire in soccorso la tecnologia, che lascia intravedere un futuro fatto di auto elettriche che non hanno bisogno di essere pilotate dall’essere umano, riducendo al minimo emissioni e pericoli per l’incolumità. Oltre a queste novità, che sembrano ormai a portata di mano, vorremmo chiederti quali scenari vedi all’orizzonte per lo spostamento degli uomini e, argomento che sembra interessare meno ma è forse più decisivo, quello delle merci.

Muoversi significa assumerci la responsabilità sociale di rendere sostenibili le nostre città alle generazioni future.

La mobilità urbana è basata sulla supremazia secolare del trasporto privato. Un modello oggettivamente e intuitivamente poco efficiente che provoca gravi ricadute ambientali (circa il 23% dei gas serra) e pesanti costi per famiglie e società (80 miliardi di euro stimati all’anno in Europa). Un fenomeno mondiale che incide sulla qualità della vita e dell’habitat. Pensiamo che In Italia, uno tra i contesti più esposti e fragili, il parco medio è di 600 veicoli ogni 1000 abitanti, il doppio di una città come Londra.

Oggi cominciamo a registrare qualche timido segnale di inversione non solo determinato dalla crisi economica ma, per la prima volta, da cambiamenti più strutturali: lo sviluppo delle attività di telelavoro, una diversa sensibilità alle istanze ambientali, un affrancamento generazionale dall’ ”oggetto automobile”, inteso come servizio e non status.

Per dirla con il pragmatismo anglosassone di un importante urbanista, Richard Burdett, “non bisogna avere atteggiamenti ideologicamente ostili all’auto, ma il suo uso deve essere limitato in prospettiva di sostenibilità”.

Dopo il secolo della città dall’auto facile, inizia ad emergere la consapevolezza che si siano toccati i livelli massimi di saturazione dello spazio oltre al consumo energetico possibile.

Credo, quindi, che lo sviluppo tecnologico del mezzo elettrico potrà dare risposte importanti ma non taumaturgiche.

Sviluppare una mobilità sostenibile implica alzare lo sguardo ad una lettura coordinata dell’equilibrio ecologico dei sistemi urbani.

L’espansione delle città – spesso senza vera crescita demografica – combinata con la perdita della sua compattezza fisica, “sciolta” in periferie diffuse, incrina sia la coesione sociale che la sostenibilità. Il tutto a costi elevatissimi per la inevitabile estensione delle reti e dei servizi, in primis di mobilità e trasporti, su territori sempre più vasti.

È un dato che l’efficienza maggiore sia legata a un numero superiore di abitanti che vive e lavora in uno spazio più ridotto e concentrato. Quanto è accaduto è l’esatto contrario: grande consumo di suolo (+8,8% nell’ultimo decennio), pesante emorragia demografica dei grandi centri urbani che restano attrattori di lavoro di aree sempre più ampie. Non si è perso solo un bene prezioso non riproducibile, ma si è attivata una spirale di collegamenti congestionati.

Al netto delle potenziali e positive innovazioni della mobilità privata in termini di sicurezza e inquinamento, resta, a mio avviso, immutato e urgente l’obbiettivo di rispondere alla complessità mediante la programmazione di offerte di trasporto sempre più differenziate e integrate tra loro, incentrando la priorità sulle mobilità dolci, il trasporto collettivo e la trazione elettrica e lavorando sul tema della gestione del traffico, sulla logistica e sull’intermodalità del movimento merci, prima ancora che sulle grandi infrastrutturazioni.

Angelo…in parole sue!

FOTO ARCH. MONTI 1Architetto, vive a Como.
Ha insegnato alle Università di Ferrara e Parma.
È stato Presidente dell’Ordine professionale di Como e della Consulta Regionale degli Architetti.
Ha diretto la Rivista AL e attualmente è Presidente dell’associazione Urbanlab, centro di studio e la promozione della cultura urbana.


2 risposte a “Tre domande a…Angelo Monti”

  1. Non conoscevo l’associazione Urbanlab e trovo che gli spunti di Angelo Monti siano un biglietto da visita che invoglia sicuramente a conoscere di più di questo progetto: ho particolarmente apprezzato il “Muoversi significa assumerci la responsabilità sociale di rendere sostenibili le nostre città alle generazioni future” e ripensando il ruolo dell’automobile senza estremismi, cosa che invece rilevo di solito sui due fronti principali pro-contro.
    Vengo da un’esperienza lavorativa milanese nella quale la condivisione degli spazi era fondamentale e che ha annoverato tra i punti deboli proprio la mancanza di smart working, oggi facilitato da sistemi informatici che permettono una maggiore flessibilità della postazione operativa.
    Abito vicino a una cittadina e già nel piccolo vedo che ci sono edifici che potrebbero ricevere nuova vita e cambierebbero così in modo strutturale come vengono vissuti gli spazi: penso inoltre alle biblioteche, posti troppo spesso lasciati all’incuria e che con gli ebook hanno subito un parziale svuotamento, ma credo solo temporaneo; sarebbe bello ritrovassero una rinnovata ragion d’essere, unita e aiutata dal mondo digitale e da strutture adeguate allo scambio culturale tra persone.
    Credo che l’architettura abbia il compito quanto mai importante di costruire e prima ancora ideare spazi in armonia con l’ambiente, le persone, la natura e le relazioni e sicuramente una visione che tenga conto di tutti questi elementi e che sappia vedere i cambiamenti che stanno avvenendo, sarà un fattore fondamentale per lo sviluppo nel prossimo futuro.
    In bocca al lupo per i progetti!
    Mattia

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