Tre domande a…serve a uscire dal blog, a impedirgli di diventare semplicemente il punto di vista dei titolari.
Ci siamo detti che ci servivano pensieri pensati da altri, persone che come noi sono state investite dal digitale mentre abitavano un mondo diverso. Vogliamo capire come quest’ospite invadente è entrato nella loro vita e nel loro lavoro, nella loro arte e nella loro scrittura, quali corde tocca e cosa promette per il futuro.
L’ospite di questa settimana è Paolo Cappelli, giornalista di RAI News 24.
Quando evochiamo il concetto di digitale, per associazione viene alla mente un panorama accelerato. Ci piacerebbe capire se, a suo parere, la digitalizzazione dell’informazione, dunque la velocizzazione della stessa, possa generare effetti deformanti sulla realtà.
La velocità della comunicazione, certo, aumenta la possibilità di errore. Ma allo stesso tempo consente una correzione più tempestiva. Sempre che siamo in ascolto! Ed è questo, in fondo, uno dei presupposti dell’era digitale: un pubblico costantemente connesso, dunque aperto alla comunicazione. L’altra enorme novità è che questa platea è attiva, non più passiva: un’alluvione ripresa con un telefonino diventa notizia sul web senza giornalista, telecamera, telegiornale. Tutti sono potenzialmente fonte di notizie per l’intero pianeta. Questo flusso di immagini, dati, opinioni, notizie ha dimensioni senza precedenti nella storia dell’umanità: ogni 60 secondi, sul web, Google risponde a 2 milioni di ricerche, sono pubblicate 36mila foto su Instagram, Facebook registra 1,8 milioni di ‘like’, 72 ore di video sono caricate su YouTube. In questo oceano, non è mai stato così facile comunicare e così difficile farsi sentire. Questo spiega alcuni fenomeni nuovi – per tornare alla distorsione della realtà – che rispondono a bisogni antichi: apparire, avere successo, accumulare ‘like’. Vale per le persone e anche per i media. Dopo gli attentati a Parigi, un giornale inglese ha pubblicato la foto di una giovane terrorista in vasca da bagno, prendendola da un social network, e da lì è finita sui quotidiani e tv di mezzo mondo, prima che saltasse fuori che non si trattava di lei, ma di una ragazza che le somigliava. L’accelerazione della comunicazione digitale, quindi, insieme alla moltiplicazione dei messaggi e delle fonti di informazione, cambia non solo il modo di raccontare, di dare notizie, ma anche i contenuti. Il rischio più grande, credo, è quello di un’ ‘informazione emotiva’, che insegue l’ultima voce, i sentito dire da fonti non attendibili, magari perché intercettano paure vere del lettore e aiutano a catturare la sua attenzione, a aumentare ascolti o copie vendute.
Posto che l’ambiente è uno degli ingredienti fondamentali nella costruzione della nostra personalità, forse l’elemento che più la modella, ci chiediamo come la digitalizzazione può avere influenzato la percezione degli eventi in chi deve trasformare la realtà in notizia.
Credo che la percezione collettiva degli eventi spesso si costruisca un po’ come l’idea che abbiamo di una persona appena conosciuta: la prima impressione conta molto. In questo senso, il rigore e le vecchie regole del giornalismo – chi, dove, quando, come, perché – sono sempre una buona bussola, oltre a strumenti della lingua (parlata, scritta o televisiva) che aiutino a capire dove arrivano i fatti e dove cominciano le opinioni.
Come si può deformare questo processo nell’era digitale? In molti modi, ma uno abbastanza frequente è la sovrastima di opinioni pubblicate a caldo sul web. Il giornalista che dà la notizia può cercare in rete reazioni, opinioni su quel fatto ma non sempre dieci tweet anticipano un sentire popolare o tanto meno condiviso. Innalzarli a reazione di un quartiere, di una città, o peggio ancora di una nazione intera è una semplificazione a buon mercato quanto superficiale. Anche rischiosa, oltretutto, perché spesso chi reagisce prima, in rete, è più portato a urlare che a esporre posizioni ragionate. È un po’ come se rendessimo ogni scritta su un muro la prova di un comune sentire.
Un giorno Enzo Biagi, nel corso di una conversazione personale, ci raccontò di essere rimasto scandalizzato nel costatare che una giornalista Rai dava del tu ad un carcerato che stava intervistando, una persona adulta. Commentò il racconto affermando che il rischio di perdere il senso della dignità dell’altro, trasformandolo in una mera fonte di notizie, è sempre più presente nel giornalismo moderno. Ci chiediamo se condivide questo monito e se pensa che la Persona stia davvero finendo sullo sfondo della narrazione giornalistica, anche, aggiungiamo, con l’aiuto del digitale.
No, non credo che al digitale si possano addossare colpe altrui. Dopo tutto, parliamo di un insieme di strumenti che hanno reso disponibili per (quasi) tutti un patrimonio di conoscenze prima fruibile da molte meno persone e a costi molto più alti. I social network, ad esempio, accanto a inevitabili distorsioni, ci ricordano che dietro ai numeri delle vittime di una strage ci sono persone con le loro vite, i loro affetti, le loro storie. Penso però che nell’era digitale la forza delle immagini determini ancora di più l’efficacia della comunicazione: una strage di minatori cinesi a 4 km di profondità non è notizia perché non la vediamo; un automobilista che imbocca l’autostrada contromano lo diventa perché abbiamo le riprese delle telecamere della A1. Se spinto all’estremo, questo principio premia la spettacolarizzazione della notizia, e non sempre questa è la scelta migliore.
Il Male, purtroppo, sa essere molto spettacolare.
La regola aurea, per giornalisti e non, dovrebbe essere quella scritta bella grande sui pacchi preziosi ma fragili: Handle with care, maneggiare con cura.
Paolo…in parole sue!
Paolo Cappelli, giornalista, è uno dei volti di Rainews24, dove cura da tempo la rassegna stampa internazionale e conduce edizioni mattutine del telegiornale. Bolzanino di nascita, cresciuto a Torino, laureato alla Cesare Alfieri di Firenze, ha lavorato a Lione, Euronews, prima di arrivare a Roma. Entrato in Rai con concorso pubblico, continua a credere nel ruolo del servizio pubblico. Ma la famiglia resta a Firenze, e questo oltre a renderlo un pendolare incallito lo spinge a fantasticare di un libro sui passeggeri dell’alta velocità.
A lungo impegnato nella prima redazione internet della Rai, altrettanto a lungo assente dalle piattaforme social. Pericolosamente vicino alla cinquantina, ama la montagna, il Torino calcio, gli u2, i bonsai, il basket, i giornali di carta e le voci della radio mentre guida.
2 risposte a “Tre domande a…Paolo Cappelli”
il panorama delineato da Cappelli è veramente preciso, un pizzico inquietante. in effetti la condivisione di notizie, il caricamento/ fruizione di video, postare foto, sono azioni che entrano ormai nella vita di ognuno di noi. e la tentazione di essere dominati dal principio di piacere è altissima:. è un attimo, basta un click e dopo un istante una comunità, di cui spesso non sappiamo nè i numeri nè l’identità, vedrà quanto abbiamo postato: pensieri, immagini…e il vortice è aperto. La riflessione è diventata sempre più difficile da attuare lo è per molti di noi che siamo adulti, per i nostri figli diventa un’impresa, e forse a fatica ne possono vedere l’utilità.
Allora noi migranti riusciamo ad avere ancora qualcosa da dire ai nostri nativi. l’esperienza di altri strumenti conoscitivi non è stata annullata dall’era digitale, perchè le modalità di fruizione ed uso creativo di questo mondo virtuale le possiamo trasmettere noi quelli del Commodor 64!
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Ho apprezzato la pacatezza con la quale Paolo Cappelli ha risposto in modo equilibrato, toccando i punti principali sul tema dell’informazione nell’era di internet e media tecnologici.
Credo che il digitale ponga nuove sfide al giornalismo e con le sue caratteristiche – velocità, apertura al pubblico, controllo dei fatti collaborativo e decentrato – offra una grossa occasione per fare giornalismo serio e forse ancora più vicino alle persone di quanto non fosse in passato; penso inoltre che i media tradizionali siano tutt’altro che tramontati, ma certamente devono attraversare una fase di profonda ristrutturazione ed essere rivisti alla luce di una realtà che è cambiata.
Un buon esempio secondo me è dato dal caso Report – Eni: l’inchiesta televisiva e classica del primo ha subito un contraccolpo del secondo che, invece di partecipare al programma con interviste registrate, ha replicato in diretta via Twitter alla puntata, mettendo in rete link a documenti prima non condivisi e che, a parere di Eni, avrebbero capovolto la situazione descritta e che hanno costretto Report alla difensiva.
Ritengo che entrambe le parti debbano imparare dall’accaduto: Report, per fare solo un esempio, dovrà tenere conto di questa possibilità di repliche spettacolari (cioè che danno spettacolo) in diretta, mentre Eni si è salvata, almeno temporaneamente, da un doveroso e immediato controllo giornalistico dei fatti – o fact checking – e dei dati messi a disposizione del pubblico.
Il giornalismo dunque ha acquistato nuovi potenti mezzi per navigare nella rete e svolgere il proprio lavoro, a patto di conoscere e approfondire la conoscenza di questa “realtà aumentata” e di non chiudersi di fronte a essa.
Mattia
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