Jet lag digitale


Ci permettiamo di aggiungere un sassolino linguistico alle crescenti definizioni che ruotano intorno alla galassia digitale. Attraverso il concetto di Jet lag digitale cominciamo a parlare di costi emotivi legati all’uso, ma soprattutto all’abuso, dei device, un aspetto cruciale per i riflessi che proietta nella vita del mondo giovanile e, ovviamente, non soltanto in quello.

Sono diversi i profili coinvolti, partendo dal ragazzino che si sente frustrato per la mancanza di riscontri positivi alla sua produzione su Facebook, gli ambitissimi “mi piace”, vissuta come un indiretto giudizio di valore sulla sua persona. Possiamo continuare con i soggetti, un esercito, che usano tali dispositivi, immolando notevoli quantità di energie nervose attraverso canali di comunicazione sempre aperti o a videogiochi utilizzati con esasperata continuità. Senza trascurare gli effetti di logoramento in coloro che con l’uso della tecnologia devono fare in conti per ragioni professionali.

Per comprendere la dimensione degli “esborsi” energetici dobbiamo fare un passo indietro e incontrare il vecchio -a questo punto quasi amichevole- stress. Lo stress, detto in modo grossolano, è la quantità di lavoro che il nostro organismo compie per adattarsi ad una nuova situazione, dopo essere stato investito da uno stimolo impegnativo (stressor). Si tratta dell’energia che consumiamo per svolgere un compito, per lottare contro un nemico, presunto o concreto, o per fuggire da un pericolo. Nel mondo reale le cose sono piuttosto chiare, qui uno sforzo si può pesare, misurare, i fenomeni si vedono e si toccano. Se dobbiamo salire una rampa di scale sentiamo la fatica sulle nostre gambe, se facciamo una serie operazioni per arrivare puntuali al lavoro avvertiamo l’impegno che stiamo mettendo in atto, se durante la giornata lavorativa affrontiamo compiti molto impegnativi il nostro organismo ci avvisa che la benzina è agli sgoccioli. In altre parole qualunque operazione facciamo, avvertiremo chiaramente il suo peso, sul piano fisico, psichico, spirituale.

Nella dimensione virtuale, invece, le cose cambiano decisamente, per almeno due motivi. Il primo riguarda la quantità degli stimoli cui siamo chiamati a rispondere con dispendiose azioni di riadattamento, ossia investendo preziose energie fisiche e nervose. In questo caso essi sono potenzialmente sconfinati ma soprattutto, e questa mi sembra la vera novità, simultanei. Il secondo si riferisce alla scarsa tracciabilità di stimoli e risposte. Più meno ciò che accade quando entriamo in un’autostrada e decidiamo di pagare con il Telepass piuttosto che in contanti, in questo caso non avremo cognizione di quanto stiamo spendendo e tuttavia stiamo spendendo, ma la quantità di tale investimento ci sarà chiara solo quando alla fine del mese riceveremo l’estratto conto dalla nostra banca. Proprio questo differimento, con relativi effetti accumulo, che eludono i controlli, ci può “indebitare” oltre le risorse disponibili, causando un forte logoramento interiore. Il rapporto con la realtà potrebbe scapitarne, proprio a causa delle relative sensazioni di stanchezza e di estraniamento, così simili ai faticosi percorsi di recupero successivi a certi viaggi che prevedono l’attraversamento di diversi fusi orari.

Dunque il digitale rende potenzialmente illimitata e simultanea la quantità di stimoli in ingresso. Questi, a loro volta, pretendono di accoppiarsi con delle risposte. Disattendere la richiesta crea un senso di incompletezza, foriero di ansia. Assecondarla significa mettere a rischio i serbatoi dell’energia fisica e interiore. Tali opzioni alimentano lo sfasamento che abbiamo chiamato Jet lag digitale e i cui effetti riscontriamo nel comportamento di adulti, ragazzi e, sempre più spesso, bambini.


4 risposte a “Jet lag digitale”

  1. Anni fa c’era una pubblicità di un noto operatore telefonico, che aveva come protagonista Leonardo Di Caprio: seduto sul crinale della montagna, dopo aver ricevuto una notifica su un preistorico palmare, l’attore diceva: “Non ora”, abbandonando l’oggetto nell’erba e godendosi il panorama.
    Oggi le cose andrebbero in modo decisamente diverso e -parlo per esperienza personale- rimarremmo stupiti dal cambiamento profondo che c’è stato nell’atteggiamento verso l’esposizione di se stessi (e della propria vita) nel web e soprattutto nei confronti di ciò che ci attendiamo in risposta a questa apertura spasmodica verso l’esterno.
    La dinamica è legata al principio di azione e reazione, quindi si pubblica un post su Facebook, o si scrive un pensiero di 140 caratteri su Twitter e immediatamente ci si aspetta un “mi piace”, o un retweet, che ha la funzione di gratificare chi lo ha pubblicato e diventa un segno di apprezzamento, un feedback rapidissimo e quantificabile tramite un numero, quindi pericolosamente “scientifico”; questo circolo si chiude in modo inevitabile su se stesso e si avvita in una morsa dalla quale è difficile uscirne.
    Personalmente ho fatto una grossa fatica a separarmi da Twitter, social che ho utilizzato in passato in modo molto intenso e che ho lasciato per tre motivi principali: eccesso di “informazioni”, o più genericamente dati (spesso di basso valore) ai quali all’inizio ci si lega con piacere, perché rappresentano una continua fonte di novità e stimolo, ma che ben presto diventano un flusso difficilmente controllabile e che finisce per travolgere chi lo utilizza: diventa “information overload”, sovraccarico di informazioni.
    Il secondo motivo era dato dalla crescente difficoltà a separarmi dal mezzo, che dopo un paio d’anni di utilizzo era diventato anche il fine e che richiedeva sempre più attenzione, come una creatura virtuale che necessita di costante attenzione.
    Ultimo motivo, forse il più importante, il fattore legato al giudizio di valore ricavato dai vari feedback, citato nel vostro articolo: proprio questo punto è cruciale, perché dalla rapidità con la quale si può passare da un costante ritorno di gratificazione, a uno nel quale altri vengono preferiti al posto nostro, oppure non c’è il ritorno che ci si aspettava, tale ritorno è sempre brutalmente quantificabile; era iniziato per me un processo di logoramento dal punto di vista emotivo che aveva superato il mio personale livello di guardia.
    Da un punto di vista tecnico ritengo di non essere uno sprovveduto della rete, eppure questo cambiamento legato a doppio filo tra la presenza costante nel mondo digitale, quindi raggiungibilità continua e senza filtri e bisogno spasmodico di un ritorno di valore, sono elementi che devono essere monitorati, perché costituiscono un magnete molto forte, che necessita di una comprensione delle leggi che governano tale attrazione (più psicologiche, oltre che tecnologiche) per poter fronteggiare in modo adeguato il carico di malessere che ne può derivare.

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    • Grazie Mattia,
      il tuo commento è praticamente un post, e aggiunge un contributo importante al tema che abbiamo cercato di trattare! 🙂
      I social network spingono verso un’interazione più continua possibile, e il fatto che questo tipo di utilizzo sia o meno compatibile con l’apparato psicologico degli esseri umani resta, per ora, fuori dalla riflessione pubblica.
      Non sarei però pessimista, abbiamo tutti i mezzi per immaginare modi originali e rispettosi per utilizzare questi strumenti.

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  2. Grazie ancora ai Dott.ri Barrila’ , scopro che la mia quasi repulsione ai social del web e non invece all’uso professionale , dove invece mi appassiono, molto probabilmente e’ dovuta al Jet lag digitale ; nell’uso professionale vengo ripagato sempre sia in positivo che in negativo ho risposte che io stesso cerco e che magari mi inducono anche a intraprendere nuove vie nuove soluzioni ; nei social non ci prendo molto (io sono un immigrato tecnologico) , forse perche’ il dialogo scritto non essendo supportato da atteggiamenti ed emozioni non sarebbe il massimo per comunicare con altre persone le quali in piu’ potrebbero anche malinterpretare il mio messaggio.

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